Liturgia della Parola
31 Agosto - XXII Domenica del Tempo Ordinario

Sebbene non compaia in cima alle qualità che l’uomo contemporaneo sogna di incarnare, nel suo sofferto relazionarsi con gli altri, proprio la mitezza è proposta dalle Scritture di questa domenica come la virtù necessaria per poter compiere l’umanizzazione della nostra vita secondo il disegno di Dio. La sapienza antica del Siracide formula a proposito un’audace esortazione: «Figlio, compi le tue opere con mitezza, e sarai amato più di un uomo generoso» (Sir 3, 18.19). Se vogliamo accogliere la perenne verità di questo invito, dobbiamo però forse fare attenzione a non confondere il cuore mite con quell’atteggiamento rinunciatario che spesso assumiamo, le cui radici affondano non nello spirito di sapienza, ma in quell’insicurezza che nasce dalla mancanza di una sufficiente autostima. Questo triste e desolato terreno, con cui ci troviamo spesso a fare i conti, fa germogliare solo le forme di questa disposizione interiore elogiata dalla Sapienza di Dio, ma non esprime affatto la sua realtà. Per essere miti — afferma il Siracide — occorre avere un «cuore» che «medita» e un «orecchio attento» (3,29), cioè essere persone vigili e per nulla impaurite di fronte all’enigma della realtà. Il Signore Gesù, invitato un giorno a pranzo «a casa di uno dei capi dei farisei» (Lc 14,1), osservando «come gli invitati sceglievano i primi posti» (14,7), probabilmente si accorge di come i nostri atteggiamenti, talvolta, manifestino proprio il contrario di quella povertà interiore indispensabile a una vita sana e santa. Il primo insegnamento offerto dal vangelo appare semplicissimo: «Quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto» (Lc 14,10). Con queste parole, il Signore Gesù non vuole soffiare sul falò — sempre acceso — delle nostre insicurezze, o – peggio ancora – farci precipitare nella palude dei nostri vittimismi, dai quali speriamo di uscire attraverso lo sguardo preferenziale di qualcuno disposto a dirci: «Amico, vieni più avanti!» (14,10). La terapia dell’ultimo posto è, in realtà, la purificazione appropriata per dissolvere quella tenebra presente in un cuore troppo abituato a vivere in un’ansia da prestazione e in uno spasmodico bisogno di riconoscimento. Possiamo rintracciare, infatti, un secondo insegnamento nel brano evangelico, nelle parole con cui Gesù osserva come «colui che l’aveva invitato» si era circondato di «amici», «fratelli», «parenti e «ricchi vicini» in vista di un «contraccambio» (14,12). Se siamo disposti a compiere il gesto della conversione interiore, dobbiamo provare a guardare le cose non per quello che possiamo ricevere, ma per quanto abbiamo occasione di offrire: «Quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti» (Lc 14,13-14). Educati e assuefatti a una logica di profitto e di opportunismo, ci siamo abituati a fare le cose sempre in vista di un riconoscimento e di un tornaconto. Con estrema fatica riusciamo a perseverare quando la colonna delle entrate si azzera o, peggio ancora, comincia a essere scritta con il colore rosso. Per uscire da questo labirinto economico, non esiste altra strada se non quella di cambiare strada. Del resto, abbiamo così tanto da “guadagnare” in rovesciamento di abitudini, che sarebbe davvero stolto non provare a farlo. Rivolgersi a chi non ci può dare nulla in cambio ci offre l’opportunità di fare finalmente i conti con quella parte di noi stessi che non siamo ancora disposti ad accettare, di cui i poveri e gli infermi sono drammatica rappresentazione. Solo nella misura in cui accettiamo di assumere questa parte “improduttiva” e povera di noi stessi, possiamo tornare a respirare e a muoverci negli spazi dell’amore vero e libero. Ogni conversione, però, è impossibile finché non ci sentiamo «avvicinati» (Eb 12,18) e vicini non a un Dio terribile — simile a «un fuoco ardente, a oscurità, tenebra e tempesta» (12,18) — ma a un Padre «vivente» (12,22) e amante della vita, che ha scritto «nei cieli» i «nomi» di noi tutti, figli amati e «primogeniti» (12,23), chiamati a partecipare per sempre «all’adunanza festosa» (12,22) della «risurrezione dei giusti» (Lc 14,14). Un Padre che prima di affidarci il primo e l’unico posto a noi riservato, ha chiesto al Figlio suo di sedersi all’ultimo, per diventare il meraviglioso ed eterno «mediatore dell’alleanza nuova» (Eb 12,24).
Le riflessioni di padre Roberto Pasolini
